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Il K2 protagonista di una nuova tragedia

Chiuso il caso di Walter Nones e Simon Kehrer sopravvissuti al Nanga Parbat dopo la morte di Karl Unterchirker, siamo adesso di fronte ad un`altra sciagura himalayana. Questa volta il protagonista è il K2, peraltro non nuovo alle cronache per questo tipo di tragedie: nel 1986, infatti, vi persero la vita tredici persone, fra cui l`italiano Renato Casarotto. Questa volta dovrebbero essere addirittura quattordici le vittime. Il condizionale è d`obbligo, ma solo per scaramanzia. Le probabilità che i dispersi siano ancora vivi sono praticamente nulle. Se queste vicende fossero avvenute in autunno, tempo di ritorno al lavoro, di tensioni sociali e politiche, non avrebbero ottenuto così tanto spazio sui mass media. Ma è piena estate, tanti sono in villeggiatura sui monti e quindi il dramma in parete tende a fare “audience“. Immancabilmente al ripetersi di questi eventi, qualunque ne sia l`epilogo, si risente un ritornello antico quanto l`alpinismo. Che senso hanno queste “imprese“? Perché rischiare la pelle per scalare una parete, piccola o grande che sia? Per chi va in montagna da sempre o per chi trova nell`alpinismo il proprio passatempo preferito senza tanto filosofarci sopra, la domanda non si pone. Scalare una parete dà soddisfazione. Punto e basta. E più è difficile più da soddisfazione. La qual cosa, ad esempio, spiega perché il ripidissimo K2, duecento metri più basso dell`Everest ma ben più difficile, sia una mèta così ambita. Ma per tutti gli altri la domanda ha un senso, eccome! D`altronde come dar loro torto? Su un piano squisitamente razionale l`uomo, a differenza di aquile e camosci, non si è evoluto per adattarsi alle pareti ed all`alta quota. Semmai l`esatto contrario: ha evoluto il proprio cervello per sviluppare tecnologie che gli hanno in parte consentito di adattare l`alta quota e le rocce alle proprie esigenze sotto forma di strade, rifugi, impianti, ecc. A ben guardare, quindi, l`alpinismo in funivia sarebbe l`unico “socialmente“ corretto. Di certo quello che in caso d`incidente non farebbe parlare di follia o di rischi insensati ma solo di inconvenienti tecnici, guasti meccanici, eventuali comportamenti dolosi o colposi degli addetti agli impianti. Per chi “crede“ nell`alpinismo queste frasi sono una bestemmia. Eppure sono considerazioni che devono essere fatte e che giustificano, sotto un certo aspetto, le levate di scudi che si sono verificate in occasione delle grandi sciagure dell`alpinismo. Alla fine degli anni Trenta, ad esempio, le autorità svizzere decisero di vietarne l`accesso a quella che venne considerata per decenni la “parete assassina“ per antonomasia, cioè la nord dell`Eiger. Il divieto venne puntualmente disatteso. Poi, nel luglio del 1938, Hekmayr, Kasparek, Harrer e Voerg, ebbero la meglio sulla parete. Prima erano considerati pazzi temerari: tornati a valle vittoriosi, vennero osannati come eroi a furor di popolo. Da quel momento l`Eiger non fu più vietato. Ma non per questo smise di far vittime. Tutto al contrario andarono invece le cose nel 1961 al grande Walter Bonatti. Dopo aver percorso oltre metà dell`ancora inaccesso Pilone centrale del Freney, sul Monte Bianco, la cordata composta da Bonatti, Oggioni e Gallieni, unitasi a quella dei francesi Mazeaud, Kohlmann, Guillaume e Vieille, fu investita da un`ondata anomala di maltempo che bloccò gli scalatori in parete per una settimana. Sfiniti scesero nella tormenta ma solo tre di loro, Bonatti, Gallieni e Mazeaud, giunsero vivi a valle. Il fatto che Bonatti si fosse salvato e che gran parte degli altri no, fece di lui il capro espiatorio per la stampa nazionale. Cosicché chi prima ne aveva cantato le lodi ora lo accusava ingiustamente di aver dato luogo ad una impresa suicida e proponeva di limitare la pratica alpinistica precludendo, per legge, l`accesso alle pareti più pericolose o difficili! Questi due furono senza dubbio i casi più eclatanti d`irrazionalità mediatica applicata all`alpinismo, ma in realtà se ne contarono decine. Le due recenti sciagure himalayane hanno riproposto la questione. Ma con una connotazione diversa, legata questa volta soprattutto all`aspetto organizzativo ed economico. Per salvare i due alpinisti altoatesini sul Nanga, infatti, è stata messa in moto (in modo un po` pretestuoso, secondo alcuni) una macchina organizzativa enorme e costosa. Inevitabile la domanda, avanzata pubblicamente dal Codacons: chi ha pagato, o dovrà pagare tutto questo? La Farnesina nega di aver messo soldi di tasca propria, cioè nostra, ma il Codacons avanza dubbi. Non è che, per caso, per le nostre spedizioni nazionali saranno i contribuenti italiani a dover far fronte a questo genere di emergenze economiche? Se così fosse, bisognerebbe allora ripensare all`alpinismo himalayano nel suo complesso e chiarire bene limiti economici e d`intervento in caso di disgrazie. Disgrazie che saranno sempre più numerose perché aumentano ogni anno le spedizioni, commerciali e non, agli Ottomila. Anche negli anni Cinquanta e Sessanta cadevano valanghe e si staccavano seracchi. Ma su quelle montagne non c`era nessuno o quasi. Oggi i campi-base sono affollati come le spiagge di Riccione a ferragosto e gli Ottomila frequentati da spedizioni provenienti da ogni parte del mondo. Il tutto a vantaggio dell`economia locale, che trova nell`alpinismo un introito ormai irrinunciabile. Ecco perché le corde fisse sulle vie normali, che vengono giudicate da molti una delle principali cause dell`affollamento, difficilmente verranno tolte: facilitano il compito di portatori e capocordata e rappresentano una (a volte illusoria, come si è visto) via di fuga in caso di maltempo. Ed ecco anche perché difficilmente si arriverà al numero chiuso per le spedizioni. D`altronde anche da noi si è proposto di chiudere d`estate alcuni passi dolomitici troppo intasati dalle auto, ma ci si è ben guardati dal farlo per non ledere il turismo. Bisognerà invece in futuro fare in modo che, ad ogni grande impresa, corrisponda un`adeguata copertura economica in caso di necessità, maggiore di quella attuale. E chi non riesce a tutelarsi economicamente non parte. Semplice! Sino ad oggi le spedizioni impiegavano soccorsi “fai da te“ aiutandosi le une con le altre. Oggi le cose stanno cambiando ed anche in Himalaya si può (ed a questo punto si deve) intervenire in modo organizzato come sulle Alpi. E` una svolta epocale e certamente positiva sul piano della sicurezza, ma che sottolinea una realtà inconfutabile: a questo mondo tutto ha un prezzo, un costo ed un valore di mercato. Anche oltre i 7000 metri!.

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